
Da qualche tempo, a Roma, in alcune vie principali come Corso Francia, sono apparsi dei manifesti che pubblicizzano “centri di medicina della riproduzione”, inneggiando alle cosiddette tecniche di “procreazione medicalmente assistita (PMA)”, alias “fecondazione artificiale”, legale in Italia grazie all’iniqua legge 40 del 2004, con uno slogan decisamente rivelatore dell’ideologia sottostante a tale pratica: «Per realizzare un desiderio, esistono diverse possibilità».
Ciò necessita una riflessione: un figlio non sarebbe dunque un soggetto titolare di diritti, in quanto condivide con la madre la medesima natura umana, ma piuttosto un desiderio da soddisfare, per cui si può legittimamente ricorrere ai mezzi che la tecnica mette oggi a disposizione. Ciò è esattamente in linea con la cultura dominante, alimentata continuamente dalle leggi ingiuste vigenti nel nostro Paese (es. 194/78, 40/04 ecc.), secondo la quale la vita del concepito è a totale disposizione della madre.
Dolorosamente, si deve constatare che la radice culturale di questo pensiero risiede in alcune idee di stampo filosofico diffuse da alcuni gesuiti francesi negli anni ’70. Come nota il filosofo e teologo Romano Amerio nel suo approfondito studio, Iota Unum (Lindau, Torino, 2009, pp. 379-388), questi teologi moderni effettuano un artificioso distinguo tra vita umana e vita umanizzata per eludere l’attualità umana dello zigote e la conseguente illiceità dell’aborto (e, più in generale, di qualsiasi violazione dell’indisponibilità dell’essere umano concepito). Spiega Amerio che, a loro detta, «vita umana è quella dell’embrione come entità biologica. Tale entità si sa essere umana e umana si denomina, perché risulta da due gameti che si sa essere di uomo […]. Vita umanizzata è invece quella dell’embrione in quanto l’embrione è accettato dalla società umana, in concreto dai genitori che lo chiamano a nascere e lo amano. Se si uccide il feto prima di accettarlo e amarlo non c’è crimine» (p. 382).
E aggiunge: «Questa è la dottrina dei Gesuiti della rivista francese “Les études” sostenuta in libri dal suo direttore padre Ribes. Vi si appoggiava, come su esponenti della Chiesa, l’on. Loris Fortuna proponendo alla Camera italiana l’11 febbraio 1969 il suo progetto di depenalizzazione e di promozione dell’aborto».
Amerio sottolinea giustamente che tale idea filosofica si fonda sulla negazione delle essenze e sul vizio del soggettivismo: si subordina cioè l’essere dell’infante al fatto che sia o meno accettato dai genitori, dimenticando invece che l’accettazione è obbligata proprio perché l’infante è già in essere. Infatti, «il bambino, essendo, ha diritto ad essere voluto come essente e il suo diritto a essere voluto non ha radice nell’essere voluto, ma nel fatto dell’esserci» (p. 383).
Tale antropologia deriva dal marxismo per il quale si diventa “persona” solo quando si ha la capacità di relazionarsi. In realtà è vero proprio il contrario: la capacità di relazione si fonda sul fatto che chi si relaziona è già persona. Queste idee, lungi dal rimanere tali, hanno dei risvolti molto pratici: primo fra tutti il fatto che oggi la decisione di vita o di morte del figlio «è rimessa, […] all’arbitrio della madre, disconoscendosi interamente la concausalità dell’altro coniuge e annientando ogni responsabilità sua sul destino del genito. Non soltanto si rompe la parità tra infante e madre, ma anche tra coniuge e coniuge, come se il concepito fosse da partenogenesi» (p. 384).
La negazione della parità della madre e del figlio come esseri umani deriva dal disconoscimento del concetto aristotelico-tomista di “natura”. Afferma perspicacemente Amerio: «Se infatti l’uomo non è natura, rispondente a un’idea divina, e dipendente da Dio che così l’ha fatta, […] l’umana sostanza sarà una forma plasmabile dall’umana sostanza. E con qual altra forma se non l’utilità? E poiché la tecnica è l’organizzazione dell’utilità, non è da stupire che i grandi fenomeni dell’esistenza umana […] la nascita, l’amore, la generazione e la morte passino gradualmente sotto il dominio della tecnica.
Conchiudendo che «perduto il concetto, prima ancora filosofico che religioso, dell’assoluta dipendenza della creatura da Dio, è impossibile che non si perda quello dell’assoluta indipendenza della creatura dalla creatura. Soltanto se appartengo a Dio nessuno mi può asservire […]» (p. 385).
Non tutto ciò che la tecnica consente è per ciò stesso moralmente giusto. E di questo ci si può rendere facilmente conto non solo con il rigore logico, ma anche osservando ciò che accade quando si lascia libero corso a tali perverse idee e pratiche. In particolare, se la vita o la morte del figlio sono in mano alla madre, allora non solo è lecita la sua soppressione ma anche il suo arbitrario concepimento tramite fecondazione artificiale, fino ad arrivare all’aberrante pratica dell’utero in affitto.
È infatti notizia del 6 aprile scorso che l’attrice e conduttrice spagnola Anna Obregon, 68 anni, ha ricorso alla maternità surrogata per partorire la figlia di suo figlio: la Obregon ha fatto ricorso alla fecondazione artificiale utilizzando il seme congelato del figlio, Aless Lequio, morto a causa di un tumore a 27 anni, e l’ovulo di una donatrice. La legge spagnola vieta l’utero in affitto, motivo per cui la neonata, così concepita, è nata in Florida. Paradossalmente, la bambina è biologicamente nipote della donna e, nel medesimo tempo, ne è legalmente la figlia.
Tali paradossi nascono dalla esplicita negazione della legge morale naturale per la quale l’uomo è chiamato naturalmente ad esistenza tramite l’atto coniugale di un uomo ed una donna uniti dal vincolo matrimoniale. La fecondazione artificiale, porta dell’utero in affitto, è il male duale della contraccezione: dove per l’una si slega la procreazione dalla sessualità, per l’altra si slega la sessualità dalla procreazione. Il male morale della fecondazione artificiale sta specificamente in questa divisione e poco importa, nel giudizio morale, che tale fecondazione ricorra ai gameti della coppia (fecondazione omologa) o a donatori esterni (fecondazione eterologa). Nel secondo caso, si ha persino l’aggravante dell’adulterio (Allocuzione di S.S. Pio XII al IV Congresso Internazionale dei medici cattolici, 29 settembre 1949: AAS, 41 [1949], 557-561).
Spiega il Dizionario di Teologia Morale (F. Roberti, P. Palazzini, Editrice Studium, 1955, pp. 695-696) che la fecondazione artificiale «è proibita dalla legge morale naturale, secondo la quale il matrimonio e i rapporti intimi dei coniugi sono il mezzo proprio ed esclusivo per la generazione della prole».
Questo è certamente il primo motivo per cui tale pratica è immorale. Ma v’è un secondo motivo che subentra con lo sviluppo di tecniche come la FIVET, la fecondazione in vitro con trasferimento dell’embrione nell’utero materno, che prevedono un intrinseco sacrificio di embrioni umani a causa (a) dell’innaturalità dell’impianto embrionale in utero e (b) dei danni a carico dell’embrione a seguito del processo di crioconservazione, spesso utilizzato per “conservare” embrioni sovrannumerari prodotti in un ciclo di fecondazione artificiale. La secondarietà di questo motivo è dovuta non tanto al male intrinseco della soppressione embrionale, quanto piuttosto al fatto che, anche nell’ipotesi (comunque meramente teorica) in cui tale tecnica fosse perfezionata fino ad eliminare tale possibilità, comunque permarrebbe la prima ragione a rendere la fecondazione artificiale un atto contro natura. Le altre (numerose) problematiche morali discendono da queste e ne sono la logica conseguenza. Se si vuole dunque contrastare efficacemente l’utero in affitto si deve partire dal mettere in discussione la fecondazione artificiale, l’iniqua legge che la permette e la matrice culturale su cui si fondano.
Fonte: CR