L’aborto procurato e quel Magistero frainteso dell’Evangelium Vitae

Il dibattito sull’aborto è una costante dell’epoca in cui viviamo. Tuttavia, esso è spesso contrassegnato da un rifiuto della ragione e dell’apporto che ad essa viene dalla fede e dall’insegnamento della Chiesa Cattolica. Quest’ultima, Madre e Maestra, ha ancora un tesoro inestimabile da consegnare all’umanità nonostante i quotidiani attacchi interni ed esterni. Ma ciò a patto che l’uomo sia disposto a cercare genuinamente la verità senza la pretesa di impugnarla per i propri scopi.

La Chiesa ha sempre insistito sull’importanza della legge morale naturale e dei principi generali e perenni che devono dirigere l’attività umana. Il prof. Regis Jolivet (1891-1966), autore del celebre Trattato di Filosofia, ricorda cosa si intenda per legge naturale. Tale nome «serve a designare una legge che è conosciuta dal lume naturale della ragione come derivante dalla natura delle cose, che procede da Dio autore della natura e che governa l’attività dell’uomo dirigendola verso il suo ultimo fine» (Tomo V, Morcelliana, Brescia, 1959, p. 106). Dopo aver delineato le sue caratteristiche, il prof. Jolivet afferma che «il primo principio della legge naturale e, per ciò stesso, di tutta la virtù morale è quello che definisce in modo universale, e prima di ogni determinazione specifica, l’ordinarsi dell’agire umano al suo fine ultimo. Questo principio si enuncia così: “Bisogna fare il bene ed evitare il male”». Tale principio è realmente primo e ciò «risulta innanzitutto dal fatto che procede dai primi concetti dell’ordine pratico o morale, che sono i concetti del bene e del male, essendo il bene ciò a cui tende l’attività pratica e il male ciò che si oppone al bene. Il principio “bisogna fare il bene ed evitare il male” risulta immediatamente da questi due concetti come il principio di non contraddizione nasce immediatamente dai concetti di essere e di nulla, che sono i primi concetti della ragione» (p. 111).

Il primo principio morale e il principio di non contraddizione, dunque, costituiscono il medesimo principio visto sotto l’angolatura morale e logica, rispettivamente. Sui principi primi non è ammessa ignoranza ed essendo generali sono incontestabili. La situazione si complica però, quando tali principi si particolareggiano, fino ad arrivare all’atto umano concreto per valutare il quale è necessario analizzare le cosiddette fonti della moralità: oggetto (o fine oggettivo), l’intenzione (o fine soggettivo) e le circostanze. La scienza morale riconosce come il suddetto principio si debba applicare all’atto umano secondo il noto adagio «bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu» (Summa Theologica, II-II, q. 79, a. 3, ad 4). In particolare, rammenta il prof. Jolivet, applicandolo agli atti umani, «[…] un atto concreto non sarà moralmente buono se non è conforme in tutti i suoi elementi (oggetto, intenzione e  circostanze) alla regola della moralità (Bonum ex integra causa): se uno solo dei suoi elementi è cattivo, l’atto stesso diventa moralmente cattivo (Malum ex quocumque defectu)». E prosegue affermando che «dal momento in cui tutto l’atto è animato dall’intenzione, questa non può restare buona se l’oggetto o le circostanze hanno qualcosa di essenzialmente cattivo. L’intenzione guarda soprattutto allo scopo, ma non può fare astrazione dai mezzi impiegati: anch’essi sono infattivoluti, benché subordinatamente. Il fine non può sempre giustificarli: esso giustifica mezzi in se stessi indifferenti, ma non atti intrinsecamente cattivi. Non è mai permesso fare il male per conseguire il bene; questo è il senso dell’adagio: “il fine non giustifica i mezzi”» (pp. 206-207).

Ricorda poi il teologo morale Josef Mausbach (1861-1931), nel suo volume di Teologia Morale (Edizioni Paoline, Alba 1957, pp. 311-312) che, per gli atti oggettivamente cattivi, vale sempre il seguente principio «ciò che è cattivo rispetto all’oggetto, ciò che intimamente contrasta con la moralità, rimane cattivo, anche quando le circostanze e il fine sono buoni. Già S. Paolo ricorda come un principio infame: “Facciamo il male perché nascano i beni” (Rom. 3, 8). S. Agostino scrive: “Quello che evidentemente sono peccati non possono commettersi per nessun miraggio di causa buona, per nessun fine quasi buono, per nessuna intenzione quasi buona” (Contra mendac. n. 18). S. Tommaso ripete ed insiste: “Quelle azioni che di per sé sono cattive per nessun fine buono si possono compiere” (Summa Theologiae, I-II, q. 88, a. 6, ad 3)». Quanto sin qui ricordato vale tanto per l’atto abortivo, intrinsecamente ingiusto avendo come oggetto la deliberata e diretta soppressione di un essere umano innocente, quanto per gli atti ad esso collegati, come il voto ad una legge che lo legittimi. Purtroppo, c’è chi, anche nel mondo cattolico, per giustificare il voto ad una legge ingiusta, utilizza il famoso passo n. 73 dell’enciclica Evangelium Vitae di Giovanni Paolo II. Il passo citato è il seguente: «[…] quando non fosse possibile scongiurare o abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta opposizione all’aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui».

Nell’opinione di alcuni, esso vorrebbe legittimare il voto ad una legge ingiusta, seppur meno ingiusta di un’altra, col fine di limitare i danni dell’aborto. Tuttavia, bisogna rilevare che questa interpretazione rischia di mettere in cattiva luce lo stesso Giovanni Paolo II, ponendo il suo Magistero in contraddizione con la Dottrina plurisecolare della Chiesa Cattolica sul punto. Ad una analisi più attenta dell’enciclica, nonché della ferma opposizione del Pontefice alla pratica abortiva, ciò che invece si rileva è la sua contrarietà all’atto del votare qualsiasi legge ingiusta. Tant’è che proprio la frase precedente al passo menzionato, citando la Dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione per la Dottrina della Fede (1974) ribadisce, al di fuori di ogni  dubbio che : «Nel caso di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette l’aborto o l’eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, “né partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né dare ad essa il suffragio del proprio voto» (tondo nostro).

In realtà, nel n. 73, il Papa fotografava una particolare situazione: la possibilità cioè di votare una legge che permettesse di restringere il numero degli aborti autorizzati laddove vi fosse uno stato di necessità dovuto all’impossibilità di abrogare la legge ingiusta vigente e senza porre in essere nessun atto che portasse positivamente ad un’altra legge ingiusta. In alcun modo il Papa affermava che è legittimo votare una legge meno ingiusta seppur comunque ingiusta. Giovanni Paolo II, infatti, giusto due anni prima, aveva ribadito nell’enciclica Veritatis Splendor l’insegnamento di Paolo VI: «non è lecito, neppure per ragioni gravissime, fare il male, affinché ne venga il bene (cfr. Rm 3,8), cioè fare oggetto di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine […], anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere beni individuali, familiari o sociali». Dunque, l’enciclica sottintende che tale legge volta a limitare gli aborti debba essere in sé giusta. Pertanto, per il Pontefice, appare conclamata l’opposizione a quelle leggi ingiuste che limitino gli aborti prevedendo la legittimazione di altri aborti. D’altro canto, è ribadita l’approvazione di quelle leggi che limitino gli aborti semplicemente vietandoli in alcuni casi, oppure di iniziative volte ad abrogare sezioni di leggi ingiuste già vigenti. Oggi ci vuole coraggio per sostenere queste posizioni, ma è necessario ricordarle se si ha la verità come bussola di orientamento delle proprie azioni.

Fonte: CR